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COVID-19: i traumi dell’uomo dei giorni nostri. Forze armate e Forze di polizia tra le categorie più colpite per ragioni di lavoro.

 

COVID-19: i traumi dell’uomo dei giorni nostri.Forze armate e Forze di polizia tra le categorie più colpite per ragioni di lavoro

Il Covid-19 sta incidendo profondamente sulla nostra società, sull’organizzazione del lavoro, sull’erogazione dei servizi essenziali, facendo emergere anche nuovi profili di disagi e malattie lavoro-correlate.

Sul punto lo Studio Legale Parente ha chiesto alla dott.ssa Cozzi, specialista in materia e consulente dello Studio, di affrontare l’argomento al fine di aiutare i nostri assistiti ad accedere più facilmente alle tutele specifiche.

COVID-19: i traumi dell’uomo dei giorni nostri

È dai tempi dell’Olocausto, dove gli uomini vennero privati della propria identità, che l’uomo non si ritrovava deprivato di ciò che più lo caratterizza: ovvero l’affettività, la socialità, il contatto umano.

Nelle guerre di conquista, una parte di noi è pronta a perdere qualcosa: denaro, confini territoriali, “eroi”, ma è qualcosa di pianificato, ben studiato, in qualche modo accettato prima ancora di cominciare. Perfino l’accettazione della morte delle milizie assume un senso diverso nella nostra mente: il sacrificio è finalizzato ad un obiettivo e la mente in qualche modo giustifica l’evento, riuscendo così a percorrere in maniera adattiva il normale percorso verso l’elaborazione. Tutti noi mettiamo in atto meccanismi mentali e comportamenti sviluppatisi durante l’intero arco di evoluzione della nostra specie.

In particolare, i comportamenti di salvaguardia individuali e del nucleo familiare sono primitivi, basilari ed automatici. Ciò che era funzionale alla nicchia ecologica iniziale non sempre lo è ai giorni nostri. Si parla di mismatching. Per ovviare a ciò, la mente procede per processi di assimilazione e confronto per somiglianza con quanto già si conosce. Questo ci dà i riferimenti per affrontare l’ignoto e ci rassicura. È un meccanismo automatico utile sebbene talvolta fallace.

Il COVID-19 non ci ha dato il tempo di adeguarci all’ignoto e la pandemia non assomiglia a nulla che abbiamo sperimentato in passato.

Quali significati assume tutto ciò nella nostra mente? E soprattutto quali sono le categorie più esposte?

Alla guerra contro il Covid non eravamo pronti, non avevamo pianificato o calcolato il rischio. Tutto quello che abbiamo imparato lo abbiamo fatto in itinere, pagando un prezzo sempre più alto, giorno dopo giorno, perdita dopo perdita.

Che la natura sia sempre stata più forte dell’uomo lo abbiamo sempre saputo, ma l’uomo in dissonanza cognitiva, allontana da se questa eventualità, pur di esercitare la sua forza ed esperire un senso di onnipotenza, orami visibilmente fittizio.

Le conseguenze psicologiche del Covid-19 colpiranno tutti, nessuno escluso. Tutti abbiamo rinunciato a qualcosa, a qualcuno, stando a casa. Altri invece hanno dovuto rinunciare a tutto non potendosi fermare, senza quindi avere il tempo per poter riflettere. Se sbagli in questa fase, se le tue resistenze ti impediscono di essere completamente concentrato in questa nuova dimensione, se la paura prende il sopravvento, se la negazione della pericolosità ti offusca la mente, il rischio è altissimo, per te stesso e per gli altri.

Personale sanitario, Forze Armate, Forze di Polizia, operatori addetti ai beni di prima necessità, esposti “come in trincea”, senza potersi esimere, sono le principali categorie che hanno subito e subiranno alterazioni del benessere psicofisico.

La memoria si nutre essenzialmente di immagini. Probabilmente la memoria di tutti ricollegherà il periodo del Covid-19 e della pandemia con il corteo funebre delle bare di Bergamo. Il pensiero va a quelle centinaia di bare portate dai mezzi dell’esercito, chiamati ad affrontare l’incarico peggiore. Quelle potevano essere le bare di chiunque, sono stati i funerali di tutti. Ma in questo caso, i soldati abituati a fronteggiare lo stress durante le loro campagne, possono considerarsi allo stesso modo esposti allo stress da pandemia? L’esercito, spiega Kennedy, “è probabilmente il principale esperto sullo stress, non perché si è impegnato a esserlo, ma perché [lo stress] è nella natura stessa della vita militare”. Il personale dell’esercito è intenzionalmente e periodicamente sottoposto a fasi di stress, attraverso esercitazioni e altri tipi di preparazione, in modo tale da poter essere pronto a eccellere e completare le diverse missioni in caso di necessità (crisi, guerre, altre situazioni di emergenza). Kennedy illustra quindi alcune similarità tra la reazione emotiva dei militari con quella che molti di noi potrebbero star vivendo in questi giorni e alcuni possibili metodi per reagire.

I modi in cui la vita militare è simile a quella in quarantena:

Secondo la psicologa Kennedy esistono almeno sei modi in cui la situazione che viviamo è simile alla vita militare. Innanzitutto, tutti noi viviamo una drastica perdita di controllo sul nostro ambiente e sulle nostre vite, a causa della mancata libertà di movimento a cui eravamo abituati. In seconda battuta, abbiamo tutti dovuto abbandonare affetti e amicizie in misura più o meno drastica. Terzo: se prima eravamo abituati a gestire lo stress in determinati modi (pensiamo allo sport), ora non possiamo più farlo. Quarto, strettamente correlato, i nostri movimenti sono fortemente limitati.

Anche il modo in cui mangiamo ha in qualche modo a che fare con la vita nell’esercito. Non abbiamo infatti la possibilità di rifornirci di cibo come eravamo abituati a fare, trovando praticamente qualunque cosa a disposizione, quando ci serviva. Oggi in diversi modi il cibo è contingentato come durante un’operazione militare e dobbiamo preparare pranzi in base agli ingredienti che ci troviamo in casa.

C’è poi un sesto e ultimo aspetto di correlazione. Esiste, nella psicologia militare, un tipo particolare di situazione chiamato “stress operativo”, che si diffonde tra i soldati quando non c’è l’immediata possibilità di un prossimo combattimento, ma esiste una minaccia specifica e prolungata alla vita e alla salute delle persone.

Queste situazioni generano risposte emotive perfettamente normali come ansia e stress, oltre ad altri disturbi sia fisici (mal di testa, diarrea, difficoltà di concentrazione) che psicologici/emotivi (disturbi del sonno, preoccupazione, depressione, irritabilità).

Vittorio Lingiardi, medico psichiatra, psicoanalista e ordinario di Psicologia dinamica alla Sapienza di Roma, fa riferimento alla condizione traumatica del soccorritore (secondary traumatic stress – disorder – o compassion stress/fatigue), condizione che in maniera del tutto narrativa può essere allargata a tutte le figure attive nell’emergenza, per definire, oltre il normale stress psicofisico, ciò che stanno vivendo le professioni d’aiuto esposte durante questa emergenza; si tratta di una particolare forma di disagio tipica della relazione di aiuto “soccorritore-vittima”, quando viene richiesto che le cure siano indirizzate per primo alle vittime primarie e successivamente a quelle secondarie. Questo tipo di trauma è stato studiato dalla medicina soprattutto nei periodi di guerra o durante catastrofi, come terremoti, incidenti aerei, grandi incendi. Si tratta di situazioni che richiedono uno specifico addestramento ad agire in circostanze molto critiche, caratterizzate da scarsità di risorse umane e materiali, capacità di adattamento rapido a ciò che la situazione richiede, prontezza nel fare scelte dolorose.

Su Quotidiano Sanità.it  del 19 marzo 2020 è stata stilata una lista dei fattori predittivi del Disturbo da stress post traumatico: “La paura e la preoccupazione di contagio per sé e per i propri familiari possono condurre l’operatore a un vero e proprio auto-isolamento. Il carico di lavoro aumentato riduce anche il confronto con i colleghi e il rapporto con i gli utenti cambia radicalmente […] Stigma e discriminazione tendono poi a persistere anche per molto tempo dopo la quarantena e il contenimento dell’epidemia. Lo stigma e il rifiuto sociale legati a fantasmi di possibile infezione verso gli operatori da parte della popolazione vengono generalmente alimentati anche dagli abituali conoscenti, dalle persone dello stesso quartiere d’appartenenza. […] Frequenti i sintomi di disagio emotivo, intenso distress psicologico, ansia, depressione, paura e nervosismo, irritabilità, insonnia persistente e sintomi riferibili a disturbo post-traumatico da stress, insieme a penosi sentimenti di colpa e tristezza”.

Sottovalutare tutto questo e molto altro, condannerà tutti allo stato di permanenza nell’epidemia. Non basta eliminare il fattore di rischio oggettivo per eliminare il trauma. I segni delle mascherine svaniranno, ma non dalla psiche specialmente di chi è stato in prima linea. Esiste una delicatissima condizione chiamata trauma secondario, che consiste nel trauma di chi deve restare a guardare qualcosa di terribile, e non poter cedere alla paura, ma deve intervenire il più lucidamente possibile. Bisogna avere la capacità di soccorrere creando dei piccoli momenti di “dissociazione” che permettono di essere (quel tanto che basta) emotivamente lontani dall’ angoscia del momento provata per gli altri, ma anche per se stessi.

L’autoisolamento, la stigmatizzazione da parte degli altri, essere contemporaneamente indispensabili per la società, ma pericolosi per i propri cari. Aiutare senza poter essere aiutati, essere sottoposti all’impotenza continua e devastante di non poter riuscire a “fare di più”, perché nessuno conosce davvero questo nemico invisibile e scoprire i posti nei quali si annida. Allora lo stress aumenta, bisogna sempre stare in una condizione di “allarmismo”, essere sempre pronti, sempre attenti, essere infallibili, prevenire il virus, i suoi attacchi, essere più veloci di lui è un po’ come diventare il virus stesso.

Su questo terreno si sviluppa quella che è più comunemente conosciuta come sindrome del Burnout che ha effetti più lunghi e graduali sui lavoratori e sui loro ambienti. È facilmente rappresentabile come un circolo vizioso: l’operatore che sviluppa questa sindrome svolge di meno e in maniera peggiore il proprio lavoro, e quindi inficia l’ambiente nel quale è inserito, minando l’integrità dell’organizzazione stessa. Peggiore è l’organizzazione, di qualsiasi grandezza sia, peggiore saranno le condizioni di lavoro per gli operatori, che a loro volta saranno sempre più disadattivi, e così via…

Inoltre, dal trauma dei singoli, bisognerà aprire una finestra ed intervenire sul trauma collettivo.

Il trauma collettivo si esplica attraverso quei carri militari che portano fuori dalle città decine e decine di feretri, corpi nudi, spogliati dalle circostanze e dalla malattia dei propri oggetti personali, ma soprattutto degli affetti e della propria identità. Interi nuclei familiari piangono le perdite barricati anch’essi nelle proprie case e nella propria impotenza, privati della comunità che in simili eventi si stringe fisicamente intorno a loro, e che con le mani, le carezze, gli abbracci, lenisce le ferite e asciuga le lacrime, dando anche la possibilità di poter esternare sentimenti, ricordi ed emozioni sulla persona amata.

La situazione odierna è più ben complessa di così, studi scientifici dimostrano come le conseguenze psicologiche colpiranno più del 65% della popolazione. Questo vuol dire che, tante, molte, troppe persone avranno bisogno di essere sostenute mentre approcciano in maniere del tutto incerta ad una nuova fase della vita. Riorganizzare e riorganizzarsi, ricominciare a raccogliere i pezzi di identità distrutte, famiglie dimezzate, persone che pensavamo di essere e che invece non siamo più.

In questi casi non si può parlare di speranza, ma bisogna agire, su se stessi in primis. Non possiamo sperare che tutto svanisca e magicamente il tempo ci riporti indietro proprio dove eravamo rimasti. Il tempo procede incessante verso il futuro, e gli uomini hanno l’imprescindibile compito, oggi più che mai, di adattarsi agli eventi, senza cedere alla paura del cambiamento. L’uomo di oggi è chiamato a cambiare, dopotutto la storia ci insegna che dopo profonde crisi sono sempre avvenute profonde rinascite. Ma la storia siamo noi.

Dott.ssa Sofia Cozzi